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Risposta alla domanda sul passaggio alla psicoterapia psicoanalitica del gruppo-coppia e del gruppo-famiglia

LA RICERCA PSICOANALITICA

D'ORAZIO LELLI
FORMAZIONE E RICERCA PSICOANALITICA
SCUOLA DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA


RISPOSTA ALLA DOMANDA
SUL PASSAGGIO
DALLA PSICOTERAPIA DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA
ALLA PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
DEL GRUPPO-COPPIA E DEL GRUPPO-FAMIGLIA
Giovanni D'Orazio

Nell'elaborare i miei pensieri sul passaggio dalla terapia della famiglia e della coppia
alla terapia del gruppo-coppia e del gruppo-famiglia dopo le stimolanti domande ricevute
nell'incontro del workshop di Mantova,
ho immaginato di incontrare un amico ricercatore nell'ambito della medicina e della psicologia,
estraneo a tale pratica ma curioso, che mi faceva la seguente domanda:
"caro amico, confusamente credo di intuire quello che mi hai raccontato del tuo passaggio
dalla terapia di coppia e di famiglia a quella del gruppo-coppia e del gruppo-famiglia,
ma sarebbe interessante se tu mi spiegassi meglio
come è avvenuto dentro di te questo tuo passaggio nell'ultimo anno"
Ed allora ho immaginato di rispondere in tal modo:
carissimo amico, cercherò di rispondere alla tua domanda
sapendo che non potrò,
nonostante i miei sforzi, essere esaustivo.

Premessa
Nel mio mestiere di psicoanalista è il terapeuta l'agente della cura
e non la sua teoria o la sua tecnica o il suo credo ideologico-religioso per la teoria psicoanalitica.
Ma per curare, lo psicoanalista deve affinare se stesso
alla percezione della comunicazione inconscia
che è alla base della relazione terapeutica tra lui e la persona che gli chiede aiuto.
Questo è l'aspetto osservativo che si basa sia sul comportamento che sulle parole,
cioè sui due aspetti in cui si esprime il contenuto inconscio dei pensieri e delle emozioni
che ha la persona all'impatto con lo psicoanalista.
Ma c'è anche un altro aspetto che chiameremo
"la partecipazione emotiva dello psicoanalista" al contatto con l'altro.
La partecipazione non è, come erroneamente viene considerata,
"il mettersi nei panni dell'altro",
perché il mettersi nei panni dell'altro non significa partecipazione,
ma rientra ancora nell'aspetto osservativo,
in quanto non presuppone alcuna modifica del terapeuta
che rimane se stesso come un " freddo baccalà".
L'aspetto partecipativo si sostanzia nella disponibilità del terapeuta
a far entrare l'altro dentro se stesso, cioè a far entrare la sofferenza dell'altro dentro di sé,
come una donna nel rapporto amoroso fa entrare la vita dell'altro dentro di sé
affinché diventi il prodotto dell'amore. Come avviene tale fenomeno?
Questo fenomeno lo scatena la persona che si rivolge allo psicoanalista
attraverso la relazione di ruolo, in pratica la persona intuisce qualcosa del terapeuta,
che spesso è un conflitto insoluto ed inconscio del terapeuta, attiva nel terapeuta
tale conflitto che rispecchia spesso il conflitto interno della persona,
e costringe il terapeuta a confrontarsi con il proprio conflitto interno irrisolto.
Esattamente come il seme dell'uomo attiva la cellula uovo della donna
in maniera tale che ne determini la sua trasformazione.
Il terapeuta quindi nella relazione di ruolo entra nel proprio conflitto e lo elabora.
In tal modo entra in contatto con la sofferenza del paziente sentendola dentro di sé.
Quindi il terapeuta si modifica e in tal modo modifica attraverso di sé la relazione di ruolo
con la persona che gli ha chiesto aiuto.
La persona, entrando in contatto con tale modifica esterna della relazione di ruolo,
può interpretare la nuova relazione di ruolo e modificare la relazione di ruolo interna
che è diventata fonte del conflitto interno che l'ha portata a chiedere aiuto.
Questo può essere descrittivamente un'ipotesi alla base del processo terapeutico
(che chiaramente ha tante altre sfaccettature altrettanto significative).
Caro amico come vedi da questa mia premessa,
il processo terapeutico si basa sulla modifica del terapeuta,
o meglio sulla sua postura terapeutica.
Credo che anche in altri ambiti di ricerca le cose avvengano in modo simile.
Certamente un ricercatore di vecchia esperienza può avere affinato,
attraverso la sua esperienza, la propria capacità di ricerca,
o meglio costruito negli anni una struttura psichica interna che lo rende capace
di analizzare i dati e di selezionarli inconsciamente.
E quindi lo rende diverso dal ricercatore giovane di esperienza.
Però il ricercatore rafforza in se stesso l'attività osservativa.
Lo psicoanalista, come lo concepiamo noi, raffina
sia la sua capacità osservativa che la sua capacità partecipativa.
Per cui in alcuni casi viene definito
un osservatore-partecipante ed in altri un partecipante-osservatore.

Ora vengo alla tua domanda
Da 45 anni mi occupo di psicoanalisi della coppia e della famiglia (oltre che di quella individuale).
In quest'ultimo anno, come spesso mi è già capitato in anni passati, mi sono bloccato.
Questo fenomeno accade quando il terapeuta entra in conflitto con la relazione di ruolo
indotta in lui dal paziente, ed è un momento per il terapeuta
di ridiscutere con se stesso la postura che in quel momento ha agito,
significa spesso che si trova di fronte ad una realtà del paziente
che gli impone di cambiare non solo la sua tecnica, ma soprattutto la sua postura.
Questo implica da parte del terapeuta una revisione della sua teoria inconscia e conscia.
E' un momento importante, infatti il terapeuta può trasformare il suo blocco terapeutico,
cioè la sua sconfitta, in opportunità facendo riferimento
non tanto alla sua tecnica quanto alla sua postura.
Se il terapeuta affronta tale problema in termini progressivi può avvicinare se stesso
alla sofferenza del paziente e trovare una modalità per curarlo.
Ritornando a me, ho compreso che il mio blocco nel trattare alcune coppie ed alcune famiglie
derivava dall'aver privilegiato la parte dell'osservatore rispetto alla parte del partecipante
(cioè di quello che fa entrare dentro di sé la sofferenza del paziente).
Osservando il mio modo di lavoro, mi sono accorto che a volte trattavo prevalentemente
la coppia e la famiglia come altro da me,
mentre in effetti ero dentro alle loro emozioni.
Questo derivava a volte da una mia difesa inconscia rispetto alla spinta al coinvolgimento
che percepivo dentro di me e che era stata evocata dalla sofferenza della coppia e della famiglia.
Comprendendo la mia difesa inconscia ho compreso che a volte venivo in contatto
col conflitto sottostante che era tra il desiderio di aiutare
e la paura di rimanerne troppo coinvolto
e quindi la paura di perdere la mia individualità.
Il risultato che avevo era di difesa dalla paura di perdere la mia individualità
attraverso il l'aspetto osservativo.
Per sormontare questo problema, ho sovvertito i protocolli terapeutici
che validavano questo mio distacco e li ho modificati accettando
di far parte della famiglia o della coppia come membro al loro stesso livello,
ma con funzioni di osservatore-partecipante,
cioè di responsabile di comprendere le loro emozioni
ed in tal modo di leader del gruppo-coppia e del gruppo-famiglia.
Questo ha comportato e comporta una modifica dei soliti protocolli e del solito setting
che mi ha permesso un passo avanti nella comprensione
delle dinamiche inconsce relazionali che avvengono
in questi due sistemi: la famiglia e la coppia.
Infatti non li ho più considerati come sistemi a sé stanti, come alcune psicoterapie li definiscono,
ma come gruppi dove è possibile che l'individuo possa partecipare
senza perdere la sua identità,
o meglio gruppi in cui non solo è tollerata l'individualità del singolo, ma viene esaltata.
In questo senso il gruppo-coppia e il gruppo-famiglia può essere un forte veicolo psichico
che sostiene i processi di individuazione del singolo.
Quindi in sintesi, questo cambiamento mi è servito per permettere ai due gruppi
di aiutare i processi di separazione-individuazione dei singoli componenti, ma per ottenere questo,
ho dovuto modificare me stesso e anche i miei protocolli.

Conclusione
1) la realtà è sempre una sfida per i nostri processi psichici di adattamento
perché ci costringe ad una forte tensione con noi stessi,
cioè con le nostre teorie inconsce e consce, con le nostre certezze che ci sostengono,
ma è una sfida che va accettata per far proseguire la ricerca terapeutica;
2) questo processo diventa possibile se accettiamo di cambiare le nostre certezze, cioè noi stessi;
3) credo che questo processo sia un processo che non coinvolge solo la psicoanalisi,
ma anche tanti altri ambiti di ricerca scientifica.


Milano, 22 maggio 2019


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